GIUSEPPE CARLO MARINO
A QUANTI HANNO TEMPO E PAZIENZA DI LEGGERE, PER UNA RIFLESSIONE SUI LIMITI E SUGLI INGANNI DEL c.d. "RIFORMISMO"
Diacronie Studi di Storia contemporanea
Numero 9, Gennaio 2012 “QUANDO LA CLASSE OPERAIA ANDAVA IN PARADISO.
Le sinistre europee nell’”età dell’oro” del capitalismo”
Intervista a cura di Luca Bufarale e Fausto Pietrancosta
- Che giudizio ritiene di dare sul periodo definito dalla storiografia francese les trente glorieuses, il trentennio 1945-1973, dal secondo dopoguerra ai prodromi della grande crisi economica degli anni settanta? Quale analisi si sente di fare sugli aspetti e le caratteristiche che hanno contribuito a definire quegli anni e il rapporto con l’epoca attuale?
Trente glorieuses o la più celebre definizione di Eric Hobsbawm “l’età dell’oro”? E’ lo stesso. Se una siffatta periodizzazione ha la sua base nell’economia (così come la domanda opportunamente suggerisce), occorrerebbe andare indietro fino agli anni Trenta e da lì, in particolare dalla seconda fase del New Deal, procedere in avanti seguendo lo svolgimento di un ciclo unitario delle trasformazioni del capitalismo segnato dal fordismo e dal keynesismo. Il tutto, pur con assai numerose varianti territoriali (ovvero “nazionali”), sulle linee dinamiche di una società di massa nella quale si sarebbe sempre più intensificata una proficua dialettica produzione-consumo che richiedeva un rigoroso controllo pubblico sulla moneta e sulle attività finanziarie, un’organica composizione (mediante un meccanismo di “concertazione” nei rapporti tra capitale e lavoro) del conflitto sociale e salari crescenti, nonché l’imposizione di regole e vincoli ad un mercato regolato e razionalizzato dalla politica mediante un’opportuna legislazione. La stesso dramma del ’29, estesosi dagli Usa all’Europa con effetti assai larghi nel mondo intero, aveva dettato la sua lezione, raccolta dal presidente Franklin Delano Roosevelt dopo il quadriennio fallimentare del suo predecessore Erbert Clark Hoover: il capitalismo avrebbe potuto sopravvivere ad una sorte che sembrava a molti ormai segnata, soltanto trasformandosi in un sistema idoneo a produrre uno sviluppo crescente stimolato dai consumi, a loro volta alimentati da un processo di redistribuzione sociale dei profitti e della ricchezza. In altri termini, un superamento del liberismo e l’impianto di un sistema che, al di là della stessa liberal-democrazia, potrebbe, in senso lato, dirsi “socialdemocratico”. La sua concretizzazione in Europa sarebbe avvenuta nei termini di una progressiva affermazione ed estensione dello “Stato sociale” (con esiti persino più avanzati dell’Opulenty Society statunitense, ma sullo sfondo paradigmatico dell’american way of life), a partire dal secondo dopoguerra, una volta travolta la variante autoritario-reazionaria della risposta alla crisi del ’29 tentata dai fascismi (che pure, a loro modo – va riconosciuto – si erano mossi verso un’atipica forma totalitaria di “Stato sociale”). Dalla parte opposta al capitalismo, si sarebbe svolta, con una forza propulsiva decrescente, la grande sperimentazione del “socialismo reale” nata dalla rivoluzione d’ottobre. Nel complesso, un itinerario unico −seppure un quadro molto variegato non uniforme e con molte contraddizioni − segnò quelle epocali trasformazioni del capitalismo che, in Occidente, nell’area euro-atlantica, andarono a sfociare nella prodigiosa stabilizzazione del “trentennio glorioso”. Per alcuni anni di quel trentennio i riferimenti “alti” di un’inedita espansione sociale del benessere e della ricchezza sarebbero state la Gran Bretagna laburista e soprattutto le socialdemocrazie nordiche del Continente. Il nostro Paese, del resto come la Germania, fece il suo ingresso più tardi nell’eldorado: nei primi anni Sessanta, dopo la ricostruzione degli anni di De Gasperi e sotto la spinta radicalmente innovatrice del “miracolo economico”. Personalmente ricordo – ne ho scritto con una certa enfasi nostalgica nel mio Biografia del Sessantotto (Bompiani, 2005) – che vissi quel senso liberatorio di partecipazione ad una vita di colpo fattasi ottimistica e solare (dopo le plumbee caligini degli anni Cinquanta) ad apertura di quel decennio, mentre si stava aprendo la stagione del “centro-sinistra”: si discuteva, con speranza, di “riforme strutturali”, di “programmazione economica”, di piena occupazione, di liquidazione della “questione meridionale”, di emancipazione femminile, di diritti alla salute, allo studio, alla casa, al salario garantito, nello slancio del “primato” riconosciuto alla politica e nella rivendicazione collettiva dei progressi conseguibili con la socialità, al segno dell’ uguaglianza e della giustizia sociale, tra fabbriche in espansione e decine di migliaia di cantieri aperti che stavano rinnovando il volto stesso del Paese. Un tempo favoloso per me. Figuriamoci per i precari e per i giovani di oggi!
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